Arrivare, ascoltare, situarsi, praticare.
Una conversazione su somatica, improvvisazione, didattica e design
Qualche mese fa Giulia Giordano, che stava lavorando alla sua tesi magistrale allo IUAV di Venezia, mi ha scritto per propormi un incontro intorno ai temi che ci accomunano, quelli della conoscenza del corpo nel design e nella didattica. Da questi primi scambi siamo arrivate a una vera e propria intervista, che si è rivelata per me un’occasione utile per ritornare su alcune questioni importanti intorno alla formazione somatica. Abbiamo quindi deciso che potesse essere utile condividere il testo che ne è nato.
La tesi di Giulia nel frattempo si è ulteriormente sviluppata, e porta il titolo “Teaching bodies. Pratiche di avvicinamento alla ricerca somatica”.
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Giulia: In che modo ti sei avvicinata o pensi di esserti avvicinata alla pratica del soma design e perché hai sentito questa necessità all’interno della tua professione e dell’insegnamento? Si sono verificate delle occasioni all’interno del tuo percorso formativo? Ha una diversa declinazione a seconda del tipo di attività e del grado di intimità o condivisione che assume?
Silvia: È stato un processo graduale. Ho scoperto relativamente tardi la danza e altre forme di movimento, ma mi sono resa conto di quanto fossero essenziali per me, e già dopo poco tempo ho cominciato a percepire come cambiasse il mio modo di stare al mondo, di osservare, di attraversare gli spazi. Devo a Rossella Savio, insegnante con cui da tanti anni pratico la release technique, l’aver capito che l’intenzione nel movimento è essenziale, e che basta l’impulso di un dito per mettere in movimento tutto il corpo. Poi ho incontrato la Contact improvisation, una forma di danza nata negli Stati Uniti negli anni Settanta, grazie a Steve Paxton e altri, basata sull’interazione tra due o più corpi che si muovono nello spazio in relazione con la gravità. In molti anni di pratica dalla CI, con molte insegnanti diverse, ho appreso tantissimo, sia sul piano comunitario e sociale, sia su quello della conoscenza del corpo. Il principio dell’ascolto, per esempio, che chiede di recepire quello che esiste in una data situazione prima di fare. E la consapevolezza che il movimento può nascere solo nel qui e ora, nella combinazione di ciò che è presente in quell’attimo. La CI sfida la nostra tendenza a ripetere schemi, e ci chiede di essere sempre disponibili a ciò che può accadere. Ci sarebbe molto altro da dire su questa pratica che per me è stata radicalmente trasformativa. L’incontro più recente è stato quello con il metodo Feldenkrais e la Consapevolezza attraverso il movimento, che mi ha insegnato a osservare e riconoscere differenze sottili, e a capire che nel corpo c’è sempre spazio per il cambiamento.
Tutte queste pratiche mi hanno resa consapevole dell’importanza del corpo come luogo di conoscenza, e hanno fatto di me una persona molto diversa da quella che ero quando ho studiato design della comunicazione e poi ho iniziato a lavorare e insegnare in questo campo. Le norme rigide che avevo assimilato nella mia formazione senza metterle profondamente in discussione si sono rivelate per quello che erano: un ostacolo allo sviluppo di un altro modo di stare al mondo come persona, e di conseguenza come designer. Liberarsene non è ovvio, è un processo che continua.
Lo spazio che più di ogni altro è cambiato è quello dell’insegnamento. Ho scoperto l’importanza dell’improvvisazione come risorsa didattica (adrienne maree brown ha una bella frase che ho adottato: “Less prep, more presence!”) e la necessità di lasciare spazio alla conoscenza del corpo nell’apprendimento. Quando ho preso atto del cambiamento avvenuto in me non ho potuto fare a meno che entrasse anche nel mio insegnamento. Ho cominciato a offrire dei momenti di movimento somatico a ISIA Urbino, prima fuori dalle lezioni, per poi arrivare a integrarli nel mio corso come momento di avvio della giornata.
Tornando alla tua domanda dopo questa lunghissima premessa: personalmente non uso il termine soma design nella mia pratica. Con l’amica e compagna di ricerche Alice Devecchi abbiamo scritto di come l’educazione somatica possa essere un modello per la didattica delle arti e del design, mentre nel lavoro di progettazione uso termini come somatic image making e ricerca somatica per il design: in entrambi i casi l’aspetto somatico è nel processo.
La declinazione di questa pratica, in contesti didattici o professionali, varia molto a seconda del contesto. Non si può imporre, e va negoziata in ogni situazione in base alla disponibilità di chi partecipa. Spesso la sfida è mantenere la mia connessione con l’approccio somatico in contesti che sembrano completamente refrattari.
Il docente riveste un ruolo fondamentale in quanto deve allontanarsi dalla figura di detentore del sapere e valorizzare l’aspetto relazionale del rapporto con la sua classe: come ti prepari per raggiungere una consapevolezza tale da divenire guida per gli studenti che provano a esercitare la propria capacità somaestetica, senza minare la loro autonomia decisionale?
La mia preparazione si radica nella pratica costante delle discipline somatiche e nello scambio continuo con altre persone che come me stanno lavorando in questa direzione. Da qualche tempo faccio parte di InFiguringOut, un collettivo internazionale di designer, performer ed esperte di movimento somatico attive nella didattica. Ci incontriamo regolarmente online, e saltuariamente in presenza, proprio per coltivare insieme questo campo e per offrirci supporto reciproco nello sviluppo delle nostre pratiche.
Nelle specifiche situazioni di insegnamento cerco di tenere in primo piano la pratica dell’ascolto, e di essere ricettiva a ciò che avviene nello spazio della classe, di leggere i segnali che mi arrivano da chi partecipa, anche se riconosco che non sempre accade. È essenziale che queste pratiche non siano imposte, e che chiunque possa decidere se prendervi parte o no.
Quando l’insieme funziona, permette di creare uno spazio in cui possono emergere le conoscenze esistenti delle persone: questa è la base per un percorso di apprendimento non impositivo. Spesso le esperienze diverse di chi partecipa sono una risorsa importante che può essere messa a disposizione del gruppo, integrata poi dalle informazioni che posso offrire per via della mia esperienza, e da quelle che possono essere trovate nella ricerca collettiva e individuale.
Quello che desidero facilitare è l’apprendimento organico, in cui la conoscenza non è informazione accumulata ma materiale vivo e vissuto, fatto proprio, “digerito” con l’esperienza e inserito in un orizzonte di significato. Credo che solo su questa base si possa parlare di consapevolezza critica. La qualità della relazione nello spazio didattico può facilitare oppure ostacolare questo tipo di apprendimento.
Quali effetti positivi a lungo o breve termine hanno esplicitato gli studenti che si sono sottoposti a queste pratiche? È sempre un’esperienza piacevole sentire il proprio corpo?
Questa risposta non la posso dare io: solo le singole persone possono rendere conto della loro esperienza. Posso darti un riscontro generale nato dalle conversazioni che ho avuto recentemente con studentesse e studenti. Per alcune persone la pratica di movimento somatico che offro è semplicemente un momento di sollievo da una modalità iper-performativa e competitiva che è spesso presente nell’insegnamento. Per me questo è già un risultato, un piccolo segnale di resistenza a un modello tossico. Altre persone abbracciano positivamente, a volte con entusiasmo, la possibilità di dare spazio e valore alla conoscenza che viene dal corpo, e spesso mi capita di incontrarle di nuovo quando mi chiedono di seguirle come relatrice nelle loro tesi. Altre sembrano poco coinvolte al momento, ma successivamente si riconnettono a questi temi, ritrovandoli in fasi successive del loro percorso. Infine ci sono persone per cui la connessione con il corpo non è un’esperienza facile o piacevole: qui è necessario che io rispetti la loro posizione, lasciandole libere di non partecipare ma evitando che si sentano escluse dal percorso di apprendimento. Sento che questa è la parte su cui devo lavorare di più.
«Il corpo è nello stesso tempo ciò con cui ci identifichiamo e che tuttavia diciamo di possedere, e questo progetto di decentramento continuo di gioco tra l’essere e ciò che è al di fuori, è alla base del compito di sviluppo della personalità umana che è, anzi diventa tale attraverso l’interazione e l’intersoggettività» (Palumbo, 2018). Un approccio condiviso di continuo scambio e comunicazione con l’altro è fondamentale per questa pratica: in un’intervista tenuta presso Radio Spugna all’ISIA di Urbino hai detto che «collaborare è un’improvvisazione perenne» (Sfligiotti, 2024). Come organizzi e peschi gli esercizi da proporre all’interno del tuo corso di Storia della grafica e che tipo di reazioni innescano fra i tuoi interlocutori?
La scelta degli esercizi può avvenire in diversi modi. A volte li scelgo in connessione con un tema di cui andremo a parlare quel giorno. Per esempio, in preparazione a una lezione sul tema del potere, ho proposto esercizi di sostegno reciproco e condivisione di peso, per offrire un’esperienza diretta di forza condivisa. In altri casi attingo a un repertorio di pratiche che ho accumulato negli anni, scegliendo di volta in volta se lavorare sulla connessione, sulla consapevolezza interna, o più semplicemente sulla riattivazione fisica, a seconda della situazione: se incontro un gruppo di persone che arrivano affaticate da una mattinata di lezioni o stressate da un conflitto, posso proporre esercizi di attivazione o di rilassamento a seconda della necessità. Può anche capitare che una pratica prenda forma in reazione alla situazione che mi trovo di fronte: una pratica che ora uso spesso, che chiamo “dell’arrivare”, è nata in modo estemporaneo e intuitivo di fronte a un gruppo di studenti e studentesse che ho incontrato un pomeriggio in una situazione di distrazione e preoccupazione per un esame imminente. Mi è servita per riportare l’attenzione al momento e al lavoro da fare insieme, e credo abbia funzionato.
Nelle pratiche che uso molto viene da ciò che ho appreso nel mio percorso: ce ne sono alcune che riutilizzo o adatto al contesto, e altre che sviluppo in modo più autonomo e personale. Anche se talvolta le chiamo “mie”, so che non esisterebbero senza l’incontro con le tante persone che mi hanno accompagnato nella mia formazione somatica, come insegnanti o compagne.
Il design manifesta generalmente una tendenza al controllo che si esplicita ad esempio all’interno delle regole cromatiche, di leggibilità, di proporzione e di gerarchia: dove si ritrova un punto d’incontro e di scambio fra una pratica fisica e spontanea come quella dell’educazione somatica e una produzione teorica/visiva come quella della grafica?
Premetto che le regole sono spesso convenzioni più che principi provati scientificamente: fanno parte di una cultura del design che anche scuole e università alimentano, senza però presentarla come tale. Non è certo un male avere una cultura del design, anzi, l’importante è esserne consapevoli. Si tratta quindi prima di tutto di imparare a distinguere questi piani, separando per esempio ciò che tecnicamente “non si legge” da ciò che viene considerato inappropriato in base a determinate convenzioni. Comprendere questo ci può aiutare a capire come porci rispetto a regole e convenzioni in ogni specifica situazione.
Il punto di incontro di cui mi chiedi sta appunto in un approccio contestuale. L’educazione somatica in questo senso può rivelarsi molto utile perché coltiva in noi la consapevolezza di noi stesse e del contesto. Non si tratta quindi di pura spontaneità individuale, ma di connessione e intersoggettività. Educarci somaticamente ci può aiutare, tramite la pratica costante della condivisione intersoggettiva, a tenere conto di una molteplicità di esperienze che vanno oltre quella nostra individuale, aiutandoci a includere questa complessità nel progetto.
Certamente questo approccio va in contraddizione con una certa visione del design come semplificazione, soprattutto formale, che è piuttosto presente nella cultura contemporanea del design e nel suo insegnamento. Ed è in contraddizione anche con i ritmi e le condizioni economiche in cui ci si trova il più delle volte a lavorare. È importante essere consapevoli di queste contraddizioni e attente a vedere gli spiragli in cui è possibile uscire da queste logiche.
Definisci gli esercizi di posizionamento come «qualcosa che possa servire a capire da dove parti, da dove arrivano le cose che sai, dove trovare quelle che cerchi… Capire il campo d’azione, cosa esclude e cosa include il mio sguardo verso il mondo». È interessante come esercizi di questo tipo riescano a fondere gli aspetti professionali a una nuova attitudine applicabile in primis alla vita che permetta di essere sensibili a un campo visivo più ampio. In che modo si è sviluppata all’interno della tua pratica? All’interno di quella dei tuoi studenti?
La mia ricerca sugli esercizi di situazione o di posizionamento va avanti da qualche tempo, sia sul piano personale sia su quello didattico, e nasce da due importanti impulsi. Da una parte il pensiero femminista, che si sta rivelando essenziale in tutto il mio percorso somatico, e da cui vengono concetti come i saperi situati (Donna Haraway 1988) e la posizionalità (Linda Alcoff 1988), che ritengo centrali per una consapevolezza di come pensiamo e agiamo come persone e quindi anche come designer. Dall’altra le ricerche di Alice Godfroy nell’ambito del Master Improvvisazione in danza dell’Université Côte d’Azur di Nizza, che ho conosciuto durante la Improvisation Summer School a cui ho partecipato nel 2022. Godfroy e il suo gruppo hanno sviluppato un progetto chiamato Cartographier les pratiques improvisées, che invita performer di varia provenienza a ricostruire l’origine dei gesti a cui attingono quando improvvisano (nella danza, nella musica, nella parola). In questo progetto ho trovato alcuni strumenti concreti che mi hanno aiutato a mettere meglio a fuoco la mia ricerca sul situarsi.
Ho fatto questo esercizio su me stessa in occasione di un invito da parte di Paolo Parisi a partecipare ai Graphic Talks dell’Accademia di Firenze nel 2022. Il mio intervento era intitolato «Da dove vi parlo. Un percorso attraverso e intorno al campo della grafica». È stata per me un’occasione importante per ridefinire la mia pratica e integrare i diversi elementi che la definiscono.
Da qui ho sviluppato una proposta didattica che ho utilizzato in un corso a ISIA Urbino. Ha preso diverse forme, la più recente invitava chi partecipava a realizzare una propria cartografia, riconoscendo le esperienze formative, le influenze e l’origine dei propri concetti di buon design, per esempio, come punto di partenza per lo sviluppo di una consapevolezza critica rispetto alla propria pratica.
La prima volta che ho proposto di lavorare sul proprio posizionamento la reazione di chi partecipava è stata varia ma tendenzialmente di apertura. Con il gruppo successivo invece non è stato affatto facile. Da una parte, credo che questa necessità fosse molto sentita da me e meno da loro: avrei dovuto chiarirne meglio il senso. Poi c’è un fattore culturale: diverse persone si sono dette non ancora pronte a posizionarsi su una mappa, come se non sentissero di averne pienamente diritto. Altre non volvano fissarsi in una definizione statica, altre ancora hanno visto questa proposta come una forma di intrusione in ambiti che sentivano come molto personali.
Nonostante queste difficoltà trovo che i lavori che sono stati realizzati in risposta alla mia richiesta fossero molto interessanti, nella loro grande diversità. Di recente alcune persone che hanno sostenuto l’esame a più di un anno di distanza dal corso mi hanno dato un riscontro positivo: pur riconoscendo che non era stato un lavoro facile, erano arrivate a riconoscerne l’utilità e a usarlo per fare il punto sul proprio percorso. Nei corsi successivi ho cambiato approccio, anche se continuo a pensare che sia importante lavorare sulla propria posizionalità come punto di partenza per la ricerca.
In Why we need more somatic culture in design parli di educazione depositaria ed educazione coscientizzante (Freire, 1970): se «chi insegna deve imparare ad aspettare» (Sfligiotti, 2024), che tipo di compromesso è possibile trovare fra gli aspetti più burocratici delle scuole di design e quelli più introspettivi e personali legati alla formazione?
Non è possibile alcun compromesso: sempre di più la formazione nel contesto italiano è compressa da norme burocratiche e parametri completamente estranei all’idea di apprendimento organico, e sono molto preoccupata degli esiti che questo sta già avendo sulle possibilità di mantenere un orizzonte di senso e di relazione nella didattica. La direzione è questa e non ho fiducia che cambi.
Quello che per me è importante, anzi, essenziale, tutto quello che ho cercato di descrivere finora non può rientrare in alcun modo in queste strutture di pensiero. L’unica possibilità è un lavoro negli interstizi, che approfitti dei vuoti, dei momenti in cui il controllo si allenta o non è ancora arrivato. Ogni momento può essere quello giusto, accorgersene e usarlo è essenziale. Ne parlavo alla fine del saggio che citi: è necessario creare degli spazi autonomi di studio, pratica e ricerca anche dove non sono previsti, coltivando la dimensione dello sviluppo individuale in relazione con quello collettivo. Studenti e studentesse hanno la capacità di farlo, dando vita processi collettivi e autonomi di apprendimento e scambio, se non vengono costretti in modelli competitivi e di auto sfruttamento, figli di un’idea della didattica come preparazione ad adeguarsi al “mondo reale”. Come docenti possiamo lavorare, anche se in piccola scala, per facilitare che questi processi avvengano, ognuna secondo la propria esperienza e la propria cultura. La mia è quella della consapevolezza del corpo: è da qui che parlo.
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Il titolo dell’intervista prende spunto da alcune puntate del mio podcast esperienze somatiche. Altre informazioni sulla mia ricerca somatica si possono trovare su substack e su instagram.
Bibliografia e sitografia
Alcoff, Linda, 1988. “Cultural Feminism versus Post-Structuralism: The Identity Crisis in Feminist Theory”. Signs. Volume 13, Number 3 Spring, 1988
brown, adrienne maree, 2017. Emergent Strategy, Shaping Change, Changing Worlds. Chico, CA: AK Press
Freire, Paulo, 1970. Pedagogia do oprimido. New York City: Herder & Herder. (trad. It. Pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, 2018).
Haraway, Donna, 1988. “Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective.” Feminist Studies 14, 3: 575–599.
Palumbo, Carmen. 2018. Il corpo inclusivo. Educazione, espressività e movimento. Napoli: Edises.
Sfligiotti, Silvia. 2021. “Why we need more somatic culture in design.” Medium.
Fuori-corso 01 con Silvia Sfligiotti. (03/05/2024). Radio Spugna.